Rivelazioni
I
Il giovane W. era fermo. Immobile dinanzi al vecchio specchio del solaio. Riusciva a malapena a riconoscere se stesso in quei lugubri lineamenti. L'immagine, d'altronde, sembrava mutare le sue fattezze di continuo, senza sosta alcuna. Le figure si accavallano impetuose e inrispettose dell'occhio di W. Si disperdeva incessantemente in esse, e non riusciva - mai - a individuarne qualcuna con precisione.
Fantocci ghignanti, in tal modo li avrebbe definiti, contorti in animalesche movenze, ora beffarde e subito dopo angosciose. Lo accerchiarono, quasi a sfiorarlo, e diedero vita ad una ballata selvaggia, sardonica, fremente: che aumentò con furia il suo moto frenetico sino a far barcollare W. ... Il giovane roteava con loro ed avvertì la sensazione di perdere il contatto con le fredde assi in legno del solaio. All'improvviso incominciarono a ricadere su loro stesse: flaccide, prive di vita, e con moto inesorabile venivano trasportate via da un vorticoso vento; e quasi ammutolite, esalavano l'ultimo respiro...
Si risvegliò molte ore dopo; non seppe mai quante furono, né tantomeno gli interessava. A condurlo a nuova luce fu un raggio brillante, che insinuandosi fra le crepe di quell'angusto e fatiscente solaio gli trafisse l'occhio, lasciandolo come tramortito al risveglio. Ripresosi e consapevole del luogo dove si trovava portò una mano a protezione degli occhi e incominciò a guardarsi intorno: era tutto come prima; nessun oggetto era spostato, quantunque, è bene dirlo, W. non si recasse molto spesso nel solaio. Solo lo specchio era capovolto, ma ciò era probabilmente dipeso dallo stesso W. A pochi centimetri dalla sua guancia, adagiata ancora sul pavimento, osservò un piccolo insetto con otto zampe attraversare il campo della sua limitata visuale. Questo, raggiunta una piccola cavità dell'asse di legno, si infilò al suo interno; e quando ne fu completamente ricoperto, anche se ben visibile da W. , si appisolò comodamente, piegando le zampette. Il giovane lo guardò ed esclamò: "Anche tu non vuoi alzarti, vero ?... Ti capisco, non ha idea di quanto sia in sintonia con te in questo istante... ". La pigrizia, fonte della sua esitazione, era di certo una delle tante caratteristiche che albergavano nell'animo di W. ; ma il giovane quel mattino, a ben dire, avvertiva una strana pesantezza alle gambe. Pesantezza che riuscì a tenerlo lì, steso per terra, per almeno una decina di minuti. Finalmente scese al piano sottostante, e i pochi scalini furono sufficienti per alleviare la spossatezza delle gambe. In cucina s'accorse di quanto fosse terribilmente presto: le sei e trenta segnava l'orologio con il suo stanco battito regolare. Benché non fosse sua abitudine far colazione al mattino ad un'ora così anticipata, avvertiva dei chiari rumorini provenire dal suo stomaco. Consumò quindi la colazione, mangiando con gusto tutto quello che gli capitava sotto mano e senza quella fretta tipica dei suoi pasti quotidiani. Data l'ora, decise di muovere un po' le gambe: per sgranchirle definitivamente. "Un paio di chilometri lungo il corso del ruscello sono più che sufficienti," pensò, "e se dopo né ho voglia mi spingo sino alla trattoria del gobbo". Lì, quasi certamente, avrebbe ordinato un bicchiere di vino che avrebbe sorseggiato con parsimonia, e sino all'ultima goccia. Il vino in questione, che tanto suscitava l'ammirazione di W. , non apparteneva ad una celebre casa vinicola, tuttavia possedeva una fragranza tutta sua, tale da renderlo semplicemente unico. Spinse in avanti le pesanti imposte della finestra per decidere quale indumento fosse adatto, ma anche per ammirare lo splendido panorama che si stagliava di fronte all'isolata abitazione. Il sole lo investì in tutta la sua potenza facendolo quasi barcollare; ed un'aria pungente e fresca entrò a fiotti nei suoi polmoni, riempendoli sin quasi a scoppiare. Fu tale l'impatto che ricevette da avvertire una sensazione che W. non avrebbe esitato a paragonare al primigenio respiro del neonato. Era sicuramente una mattina inusuale. W. lo avvertiva, lo percepiva in ogni sua azione, in ogni suo gesto. La sua esistenza sembrava aver acquisito una nuova e inusitata fisionomia, tale da conferire un diverso significato a tutte le cose, anche le più insignificanti. Non ricordava mai il pranzo del giorno precedente, ora al contrario era certo che quella colazione sarebbe rimasta indelebile nella sua mente; nè tantomeno sarebbe appassito il ricordo del panorama al di là della finestra. Li avrebbe conservati nel bauletto segreto del suo cuore, celandoli a occhi indiscreti, che mai avrebbero potuto comprendere, anche solo in parte, il significato dei due ricordi. D'altronde realizzò che il mutamento doveva essere connesso in un modo o nell'altro con quanto era avvenuto la sera precedente. Non vi erano dubbi al riguardo. I ricordi però erano fugaci e indistinti: rammentava di aver trascorso la notte in solaio e di aver anche sognato, sognato a lungo e in modo angoscioso. Di cosa trattasse il sogno però non ne aveva la più pallida idea. Le immagini erano sfumate, prive di forme proprie; solo un ricordo era distinto: lui stesso che si osservava allo specchio a lume di candela per individuare un particolare del suo viso. I suoi pensieri, volando sul turbinoso fiume dei suoi ricordi, giunsero difilato al giorno prima, allorché un suo amico, uno dei tanti, gli aveva fatto notare che il suo taglio di capelli aveva un che di diverso dal solito. W. sulle prime aveva riso, considerandola poca cosa; soprattutto pensava che scherzasse al fine di porlo in imbarazzo nei confronti di una ragazza con cui stavano dialogando, e nei riguardi della quale le intenzioni dei due erano piuttosto evidenti. Tuttavia al ritorno, non appena la porta d'ingresso del caseggiato dove alloggiava fu chiusa, volle guardarsi immediatamente allo specchio. Quello della toilette non era disponibile, per cui si diresse verso il solaio munito di una candela. Ricordava infatti di aver notato in quella stanza un antico e grande specchio ovale, in parte ingiallito ma sufficiente per i suoi fini. Salendo per la stretta scalinata e attento a che non scivolasse, non s'avvide che la manica della sua camicia era incappata in un asse di legno appuntito. Lo strappo fu inevitabile; e W. , mentre imprecava pesantemente, pensò a tutto il denaro speso per acquistarla - era alla moda!-; e subito dopo le sue imprecazioni si volsero all'indirizzo del suo amico, vera causa di siffatto spreco, che per uno scherzo assurdo e stupido gli aveva rovinato in parte la giornata. Comunque era giunto. La porticina non emise quel rumore sinistro che le era tipico, e questo in parte dispiacque al giovane: eliminava buona parte del mistero insito nella sua impresa. Dopo quest'ultima immagine... nulla di nulla, la sua mente non ricordava più alcun particolare della nottata.
Dispiaciuto ma non troppo del suo vuoto di memoria decise che era ora di mettersi in cammino per la mattutina passeggiata, e così fece. Uscendo il lembo strappato della sua camicia incappò nella maniglia della porta aggravando le condizioni dell'indumento. Ciò non causò come la sera prima una serie di imprecazioni: W., oramai rassegnato, ebbe semplicemente la conferma che quanto accaduto era reale e che il suo denaro era andato irrimediabilmente perso. Pochi passi e l'aria frizzante furono sufficienti a temprare l'animo del giovane, che con passo risoluto si dirigeva verso il ruscello. Le strade erano pressoché vuote: si poteva incontrare solo alcune persone assonnate, da cui di certo non si sarebbe stati notati. W. invece notò una giovane donna dietro la finestra di una piccola ma graziosa casetta. La donna, intenta com'era ad osservare con sguardo fisso un gatto sulla sponda del ruscello, non si accorse del giovane. W. poté quindi guardarla indisturbato, e per meglio farlo rallentò il passo. Era una donna biondiccia, dall'aspetto piuttosto scialbo, il cui sguardo immobile la rendeva simile ad una statua di marmo, tanto più che era anche pallida. Quando era oramai troppo vicino distolse lo sguardo per non correre il rischio di essere scoperto; ma il suo capo non ebbe il tempo di ruotare di novanta gradi che si ritrovò dinanzi il professor Frege. Questi era un uomo sulla cinquantina, di altezza non superiore al metro e sessanta; la corporatura era piuttosto grassa e il suo viso costantemente paonazzo, il che gli conferiva un aspetto simile a quello di una macchietta d'avanspettacolo. Per quanto concerne il resto, i suoi modi erano gentili o almeno tali erano parsi a W. quando lo aveva conosciuto in una libreria del paese alcuni giorni prima. W. , non aspettandosi l'incontro, provò un leggero imbarazzo... invero pensava di essere stato scovato da quell'uomo ad osservare la donna, come se ciò costituisse reato. Il professore che non aveva notato alcunché, essendo lui stesso piuttosto sovrapensiero, fermò W. e incominciò immediatamente a parlare, comportamento solito per lui quando incontrava un conoscente.
"Buongiorno signor W. Noto con piacere che anche lei ama gironzolare per le strade al mattino." "In realtà non è mia abitudine, " chiarì il giovane, " la mia levata al mattino è piuttosto tarda..." "E' un peccato sa; " lo interruppe il professore " io infatti penso che queste salutari passeggiate allunghino di molto l'esistenza di un individuo, almeno quando essa meriti un'ulteriore ritardo dell'ora funesta."
Si zittì per qualche istante, nel corso del quale portò un mano sul mento, e con la fronte aggrottata riprese: " Comunque questo mi fa supporre svariate cose al suo riguardo... E' lei un giovane pigro?" si chiese, " Di certo no. Non ne ha la fisionomia, e dopo ho notato l'altro giorno che le sue letture non sono delle più facili". S'interruppe ancora una volta, ma solo per poco tempo. " Mi permette di esporre una teoria che la riguarda ?"
"Ma certo !" rispose W. " In fondo mi diverto e lei stesso sembra divertirsi molto a formulare delle teoria riguardanti gli uomini. Non sono essi in realtà il principio e la fine di qualsiasi pensiero filosofico e letterario ?"
"Ha ragione mio bel giovane. L'uomo è una fonte inesauribile di idee, di emozioni, che comunica suo malgrado attraverso il suo modo di atteggiarsi, mediante le sue frasi, anche le più insignificanti. Persino i suoi errori rappresentano degli spiragli dai quali è possibile scorgerne l'animo. Lei tuttavia ancora mi sfugge, forse perché la conosco poco... ancora. Quanto da lei detto in libreria, seppur ben articolato, era conforme con il pensiero comune; le sue idee, pur essendo penetranti e acute, si muovevano a partire da alcuni capisaldi tipici della società borghese alla quale lei appartiene. Ciò non è un difetto, sia ben chiaro, tuttavia lei mi comunica qualcosa d'altro; sembra quasi celare il suo vero animo. Ciò che vedo dinanzi a me è più simile ad una maschera che ad altro". Il giovane si mostrò indispettito a queste parole, e replicò in modo risoluto e preciso senza dare alcuna possibilità a Frege d'aprir bocca.
"Lei ritiene questo professore ? A dire il vero io ho sempre creduto di manifestare in modo limpido e schietto il mio animo; mai nessuno mi ha accusato di nascondere la mia persona sotto un velo di Maja. Pertanto credo che le sue conclusioni siano da addurre alla scarsa conoscenza di entrambi. Ora mi scusi ma avrei un appuntamento al quale preferirei giungere puntuale". Frege fu divertito dalla reazione del giovane, sebbene si premunì dal darlo a vedere, e salutandolo cortesemente riprese il suo cammino, per poi dare inizio alla sua opera di analisi del comportamento di W. Questi, più risentito di quanto effettivamente aveva lasciato intuire, continuò la sua passeggiata voltando bruscamente verso sinistra: il pensiero che quel professorino potesse squadrarlo mentre si allontanava lo irritava incredibilmente. Tuttavia il suo presentimento si rivelò errato: Frege non solo non lo osservava, ma stava di già entrando nella casetta dentro la quale aveva osservato poco prima la ragazza dai toni scialbi. Sulle prime la cosa incuriosì il giovane, ma dopo poco già non gli prestava alcun pensiero: di fronte a lui difatti si poteva scorgere la trattoria nella quale avrebbe potuto acquistare il suo adorato bicchiere di vino. Il suo giro proseguì senza ulteriori avvenimenti di riguardo se non per quello che W. trovò il vino di un sapore ancor migliore di quanto ricordasse.
Il rientro fu più faticoso di quanto avesse previsto: non abituato a percorrere tanta strada a piedi, ogni due trecento metri si fermava su di una panchina per riprendere fiato; immergeva quindi il fazzoletto nel ruscello e si rinfrescava la fronte. La stanchezza si alleviò solo quando intravide il tetto spiovente dell'abitazione che lo ospitava. Questa consisteva in un ampio caseggiato poco distante dal paese; piuttosto vecchio, come si evidenziava dall'aria stanca delle mura formate da mattoni rossi; e si allungava su due piani. Dalle ampie vetrate si poteva ammirare un fresco e verde prato che lo circondava, e all'ingresso si apriva una veranda sulla quale erano disposte alcune panche in legno. Nel complesso era quindi un'abitazione molto solida e confortevole; unica pecca era il tetto, completamente marcio, che urgeva di un intervento rapido, il freddo infatti era oramai alle porte. La padrona di casa, una donna grassa ma di incredibile agilità, utilizzava il caseggiato come albergo, avendo a disposizione numerose stanze. Fra i suoi ospiti vi erano in genere persone non ricche; la norma voleva che fossero studenti, coppiette di anziani o alcuni viaggiatori di passaggio. W. era appunto uno di essi: iscrittosi nel 190... alla vicina università di (***) alla facoltà di filosofia e storia, ed oramai in procinto di conseguire la laurea, stava trascorrendo un periodo di riposo nell'attesa che riprendessero le lezioni universitarie. Oltre al giovane nell'abitazione alloggiavano solo alcune persone: una coppietta di sposini, quasi sempre chiusi nella loro stanza ( i due non erano ben visti da W. ); un compositore, che a quanto si vociferava viveva nel caseggiato già da molto tempo; e infine un prelato, il cui aspetto piuttosto tetro aveva condotto W. alla conclusione che fosse un esorcista. Quando giunse di fronte all'edificio vide gli sposini seduti su di una panchina della veranda. W. salutò con garbo; i due per tutta risposta si limitarono ad un lieve cenno della mano, riprendendo immediatamente a parlare con voce bassa, e quando il giovane li superò per entrare, soffocarono una risatina. W. , urtato e con la fronte corrucciata, sbattè la porta d'ingresso, e trovò in pieno corso di svolgimento un'accesa discussione fra i restanti coinquilini. Entrambi erano seduti su delle strette poltrone e il compositore, il cui nome era Kosynski, sembrava non amarle affatto: era quasi sempre in piedi e girava intorno al prelato, il quale, placido e tranquillo, se ne stava seduto. Tuttavia la posizione assunta da questi parve troppo perfetta a W. per poter essere naturale: le ginocchia erano piegate in modo tale che le gambe formassero un angolo retto, ed anche il busto era a novanta gradi rispetto ad esse. Le braccia erano distese lungo i braccioli e con le mani ne afferrava la parte terminale, stringendola. Il giovane, le cui buone maniere erano fortemente radicate nell'animo, salutò cortesemente i due; ma questi, come gli sposini, non andarono oltre un lieve cenno del capo. Sul volto di W. ricomparve la medesima espressione risentita di un attimo prima, specchio fedele dei suoi pensieri. Si sedette su di una sedia, accavallò le gambe, ed aprì il giornale con furia tale che le pagine provocarono un secco schiocco. La discussione verteva sull'esistenza divina; argomento questo a cui W. non prestava mai molto interesse: considerava la religione come uno dei tanti doveri imposti dall'esterno, al quale sarebbe stupido opporsi. "In fondo si è sempre creduto in Dio," pensava, "perchè mai cambiare le cose proprio ora; perchè mai bisognerebbe complicarsi la vita con vacui ragionamenti". Quel parere sincero, e mi si permetta di sottolineare che è cosa "non da poco" per il nostro protagonista, suscitò un sorriso in lui, appena accennato però. Proprio lui pensava questo, che da anni oramai trascorreva le sue giornate in compagnia delle varie astrusità dei filosofi: W. riteneva infatti che le proposizioni filosofiche non fossero vere o false; bensì insensate o mal poste. Tuttavia si era sempre premunito nei dialoghi con i professori dall'esporre la sua tesi. Frattanto i due erano in procinto di abbandonare il terreno della moderata discussione per tuffarsi nel mare tempestoso della disputa. Come due isole vicine ma inaroccabili l'una all'altra, si scagliavano a vicenda le saette; e seppur trafitte da esse, e seppur dilaniate dalle onde spumeggianti, non accennavo a battere in ritirata. Kosynski difatti non sedeva più, neppure per un solo istante: continuava a girare intorno al prete in tono minaccioso, come se questo fosse una preda; e sembrava attendere solo l'attimo propizio per azzannarlo. W. quindi volente o nolente ascoltò le parole dei due.
"Quello che lei afferma mio caro reverendo è completamente fuori luogo. I fenomeni fisici nell'antichità erano oggetti di divinizzazione in quanto non erano in grado di essere spiegati per via logica. Di qui il Dio vulcano o il re sole. L'approccio scientifico però, nel corso dei secoli, ha condotto alla loro spiegazione..."
"Non vorrà farmi credere che l'uomo con la sua fragile mente abbia spiegato ogni sorta di fenomeno fisico" replicò il prelato". I misteri sono ancora tanti e sempre ne sorgeranno. A me pare che le scoperte scientifiche abbiano ottenuto come unico risultato l'incremento dei dubbi". Kosynski lo squadrò furibondo e sfiatò dal naso, quasi fosse un drago.
" Spero che lei non pensi quanto dice ! " tuonò. " Certamente devo ammettere che molti sono ancora i punti oscuri e le perplessità; sicuramente la mente ha commesso e continuerà a commettere degli errori, tuttavia prima o poi vengono svelati e risolti. E tuttavia, ancora, non può negare l'evidenza: le incertezze diminuiscono ogni giorno; il suo Dio sta per essere spodestato dal suo trono per non tornarci mai più. Voi uomini di chiesa pretendete di dimostrare l'esistenza divina adducendo come prova quei fenomeni che l'uomo non ha ancora spiegato". Pronunciò quest'ultima frase con l'indice puntato verso il reverendo, guardandolo fisso negli occhi, questi però non chinò lo sguardo e rispose placidamente.
" Non riesco a comprendere per quale motivo Dio dovrebbe essere detronizzato. Pur ammettendo che questi non sia direttamente causa di ogni fenomeno fisico, Dio rientra a pieno diritto nel momento in cui si vuol giungere a comprendere il problema dell'origine ultima. Esso infatti va affrontato seguendo una metodica estranea ai semplici processi fisici".
" Ciò però non implica affatto che Dio esista; questa è ancora una semplice supposizione priva di qualsiasi fondamento logico. In realtà lei attribuisce alla mente umana, che ritiene un organo fragile, facoltà che non le sono proprie: come può essa comprendere l'origine dell'universo se non ancora capace di capirne perfettamente il funzionamento".
"Questa comprensione non deriva dall'uomo, bensì da Dio stesso, " chiarì il prelato, " è un suo dono".
" Ma con questo lei non fa altro che spiegare un mistero con un altro ancora. Procedendo in tal modo è possibile affermare qualunque cosa; potrei ad esempio dichiarare di aver avuto una folgorazione di tale portata da avermi fatto comprendere in un sol istante l'ordine dell'universo intero."
Anche il prelato a questo punto assunse un atteggiamento più duro, e dichiarò perentoriamente: "Dio è un essere perfetto; deve esistere ! Ha in sè il fondamento della propria esistenza; nulla è prima di lui e tutto ne deriva". Detto questo si alzò e si avviò senza fiatare verso la propria stanza al piano superiore, benchè Kosynski fosse scoppiato in una sonora risata che placò solo quando sedette accanto a W.
Il primo ad aprir bocca fra i due fu il compositore.
" C'è qualcosa di nuovo sul giornale questa mattina ?"
" Bah... !Niente di nuovo, " rispose W. " Sembra quasi di leggere l'edizione di qualche giorno fa." " Che vuole, dalle nostre parti è già un avvenimento il parto di una scrofa... Non che mi dispiaccia, sia ben chiaro. Vivo molto bene qui, disperso nella campagna. Sono certo invece che in città, dove vivi per tutto l'anno, la vita si svolge in modo diverso... ". Sul volto di W. comparve una smorfia, tramite cui manifestò tutti i suoi dubbi al riguardo; ma il compositore non avvedendosene riprese a dire:
"Li devi sentire come parlano della città gli uomini del paese ! E' uno spasso. L'altro giorno discutevano su di un certo professor Conrad. Pare che abbia violentato una studentessa dentro al proprio studio... "
W. rimase alquanto sconcertato dalla notizia: ricordava bene quell'uomo: basso e molto magro; portava degli occhialini le cui lenti, spessissime, deformavano non poco il suo vero aspetto. Si diceva che fosse un ottimo docente. Le sue lezioni di filosofia teoretica erano seguite da studenti anche non appartenenti al suo corso. Tutto si poteva pensare di lui tranne che fosse una persona violenta; a guardarlo, mentre camminava col capo chino per i corridoi universitari, si sarebbe detto che fosse una vittima e non un carnefice. Intanto il compositore aveva continuato a ciarlare con aria allegra e soddisfatta, non accorgendosi che W. era distratto. Il suo buonumore scaturiva dalla convinzione personale di aver riportato una schiacciante vittoria nella disputa tenuta contro il prelato pochi minuti prima; era anche certo di aver letteralmente costretto alla fuga l'avversario, non essendo questi più in grado di ribattere. Quando si rese finalmente conto di chiacchierare solo con se stesso, si zittì per un attimo e, alzatosi lentamente, come se non volesse disturbare W. , uscì all'aperto. Qui trovò ancora la coppia di sposini sempre intenti a cianciare fra loro: alternavano paroline dolci con risa soffocate, e ogni tanto si lasciavano sfuggire qualche tenero e pudico bacetto. La cosa parve stomachevole a Kosynski. Lui era fiero di essere celibe; ad un mondo dove tutti cercavano di accasarsi cercando una ragazza carina e con ricca dote, lui ribatteva con la propria solitudine. Solo con essa è possibile stimare l'interiorità di un individuo con rigore e accuratezza; solo con la compagnia di essa l'esistenza di un uomo acquisiva le virtù di fierezza e audacia. Questo pensava e questo diceva a chiunque gli chiedesse il perchè non avesse preso ancora moglie. Kosynski infatti aveva compiuto già i quarant'anni e da circa quindici abitava in quella casa. Era giunto per rimanervi solo alcuni mesi, ma più si apprestava il giorno della partenza e più lui pensava ad esso con angoscia. Dopo svariati posticipi, l'ultimo risalente a tre anni prima, decise di stabilirsi in pianta stabile nell'assolata stanza al secondo piano del caseggiato. La sua precedente dimora era situata a Innsbruck, nella quale la vita per un artista non era delle migliori in quel periodo. In quei giorni si era rivolto a centinaia di persone; aveva tentato in tutti i modi, leciti e non, di far eseguire la sua musica. Alla fine un tipografo coraggioso stampò anche le sue partiture, ma questi fu ben presto costretto a chiudere bottega per un incendio, divampato in un'afosa sera estiva. Peraltro riuscì anche a far eseguire alcuni dei suoi brani in un concerto di musica contemporanea, nel corso del quale lui stesso si accomodò al pianoforte. L'unico commento a tale avvenimento si ebbe in un giornale di quarto ordine, in cui un illustre sconosciuto dal nome: professor Hengels, definì la musica di Kosynski: "Un lavoro compositivo ingabbiato troppo strettamente nel suo cerebrale procedere. L'affascinante e raffinato timbro si scontra con la mancanza di un processo formale che sia coerente o quantomeno coglibile. Pertanto, rifiutando qualsivoglia principio strutturale si abbandona alla massa musicale, creando un noioso e illogico esercizio inventivo". Quando lesse questo stralcio di articolo, il compositore riflettè non tanto sulle critiche mosse alla sua musica, per certi versi esatte per altri invece stupide, quanto piuttosto al lettore assolutamente non avvezzo a leggere articoli di critica musicale: " E dopo ci si lamenta che la musica contemporanea non abbia grosso seguito !" si disse. " Ne parlano come se si trattasse di qualche teoria scientifica e non arte ".
Kosynski dopo aver compiuto alcuni profondi e lunghi respiri si incamminò lungo la stradina che affiancava il ruscello, per insinuarsi poco dopo nelle viuzze del paese. Sua intenzione era quella di acquistare qualche quaderno di pentagrammi. A dire il vero negli ultimi tempi aveva quasi rinunciato ad essi, e aveva costruito per conto proprio una nuova notazione musicale. Quella tradizionale la considerava troppo imprecisa, e soggetta a svariate interpretazioni. Il compositore, a suo parere, quando componeva un pezzo, aveva l'obbligo preciso di non lasciare nulla al caso; di ogni singola nota dovevano essere chiari la durata, il tempo, il colore ed ogni altra caratteristica tale da renderla unica. Sapeva bene che il suo era un atto egoistico, in quanto lasciava ben poco spazio all'interpretazione della musica; e sapeva anche bene quanto fosse pericoloso per sè e per il futuro della sua musica: nessun interprete avrebbe potuto e voluto eseguire un brano in cui gli applausi del pubblico fossero diretti integralmente al compositore, e mai all'interprete. Ad ogni modo era questo quello che desiderava, almeno per quel concerneva la sua musica.
Il suo passo era sicuro e veloce. Raramente salutava qualcuno, anche se gli fosse stato presentato. Degnava di un saluto solo chi frequentava con assiduità, anzi con essi era un caro e sincero amico, sempre pronto ad una battuta simpatica. Di qui il disappunto e la curiosità con la quale veniva osservato quando circolava per le vie. Strane congetture sorgevano relativamente alla vita del compositore: Perchè viveva proprio in quel paesotto? Cosa diamine c'era venuto a fare? Quel nome slavo, qual significato poteva mai avere? Era pericoloso per le sorti del paesotto? La signora Matthiau, padrona del caseggiato dove alloggiava W. e che quindi da anni viveva con Kosynski, non si lasciava mai sfuggire l'occasione per sciorinare lodi e complimenti, anche se spesso non erano veritieri: sperava che prima o poi i compaesani l'accettassero e lo considerassero a tutti gli effetti un abitante della cittadina. Naturalmente sia a causa del carattere spigoloso del compositore, sia per la diffidenza dei paesani, non fu mai visto di buon occhio. Bastava un niente e i dubbi, le maldicenze, riaffioravano, per poi svanire come se nulla fosse accaduto. Negli ultimi mesi lo scettro di cattivo del paese era stato condiviso con un personaggio singolare, del quale Kosynski era un intimo amico. Viveva in un'isolata ma immensa abitazione, immersa completamente in una boscaglia poco distante dal paese. Buona parte di essa era abbandonata, ma al signor Mike Cruiser - questo era il nome dell'uomo - non interessava. Ad ogni amico che si recava in quell'eremo per portargli visita confidava con aria soddisfatta: "Questo è il mio paradiso. Qui non ascolto le banalità e le malignità della gente. In questo luogo ricevo solo chi desidero; chiunque non è ben accetto lo capisce... prima o poi". In particolare, quando pronunciava queste ultime parole, alzava il sopracciglio destro in modo singolare e modificava il tono della voce, abbassandolo; il tutto conferiva al suo volto una mimica eloquente riguardo ai suoi poco ortodossi mezzi per sbarazzarsi degli indesiderati. Per salvaguardare la propria dimora da sgradite intromissioni, era addirittura giunto a disseminare per il bosco innumerevoli aggeggi che terrorizzavano chiunque non ne fosse premunito; in alcune notti anche lui stesso.
La mente di Kosynski era nel frattempo volata proprio al signor Cruiser: aveva promesso di onorarlo dell'ascolto di una sua sonata per violoncello solo, anche se il termine sonata è qui utilizzato in forma quanto mai impropria. Ritornò pertanto di corsa all'abitazione e, preso lo spartito, inforcò una bicicletta per ripartire alla volta del bosco. La strada era in molti tratti dissestata e piena di sassi; se si era con una bicicletta occorreva procedere abbastanza lentamente. Kosynski per tutta risposta la percorse all'impazzata, ottenendo come risultato una spessa coltre di terriccio che gli ricoprì il corpo, tanto più che era anche caduto ad una curva. Leggermente spossato giunse all'imbocco del bosco circa dopo dieci minuti. Di qui a seguire il percorso di certo non migliorava: la stretta stradina, piena di sterpi e sassi, cambiava in continuo la pendenza, costringendo il compositore a procedere a piedi. Tuttavia questo tragitto alternativo, ve ne era difatti uno più comodo, aveva dei lati positivi: era molto più breve del precedente, e in esso non si incorreva nei marchingegni di Mike Cruiser.
Seduto sulla veranda, Mike era talmente immerso nella lettura di un libro di storia medievale che non s'avvide dell'arrivo del suo amico. Quando lo vide, a pochi metri da lui, disse scherzoso: " Spero che tu non vada in giro di solito in queste condizioni, altrimenti rischi di essere arrestato per vagabondaggio. Ti ha investito forse una locomotiva ?".
"Niente di tutto questo " bofonchiò Kosynski, "E' tutta colpa di quella terrificante strada di campagna "
" Dal tuo tono si direbbe che la odi dal profondo del cuore." Al che il compositore lanciò un'occhiataccia al primo. " Piuttosto " riprese questi, " hai notato nulla di nuovo mentre venivi qui?" .
" No, assolutamente nulla " rispose il compositore spolverandosi alla bene e meglio, e bloccandosi all'improvviso esclamò: "Non mi dire che hai installato un altro dei tuoi odiosi marchingegni !" "Certamente " confermò con falsa fierezza." Il nuovo arrivato è un simulatore di grida umane. L'ho trovato in uno di quei negozietti dove vendono roba utilizzata nei teatri."
"Se io rischio di essere arrestato per vagabondaggio, tu corri il serio pericolo di essere internato in qualche manicomio, per restarci forse tutta la vita"
"L'idea non mi dispiace affatto. Probabilmente conoscerei gente più interessante di quella che ho incontrato nella mia esistenza".
Kosynski, dopo essersi ristorato per qualche minuto, prese lo spartito e lo pose dinanzi a Mike, il quale senza un attimo di esitazione incominciò a sfogliarlo, mostrandosi quasi subito affascinato. Trascorsero così tutta la giornata: dapprima il padrone di casa, che era un buon violoncellista, eseguì la sonata, anche grazie alle giuste indicazioni del compositore che sperava in un'esecuzione per quanto possibile in sintonia con i suoi desideri. Dopo fu lo stesso Kosynski a sedersi al pianoforte. Si interruppero solo in due occasioni: la prima per mettere sotto i denti qualcosa da mangiare, e la seconda a tarda sera quando erano completamente esausti. Kosynski, data l'ora tarda, si autoinvitò a trascorrere la notte da Mike, e "l'eremita" poco dopo lo accompagnò in una delle camere da letto. Quella che gli toccò in sorte era per il compositore a dir poco principesca: letto con baldacchino, ricche e raffinate suppellettili che guarnivano ogni angolo della camera, ed infine, per terra, dei preziosi tappeti. L'atipica dimora notturna non piacque molto a Kosynski: preferiva una calda e accogliente stanzuccia, con un piccolo ma comodo giaciglio, e non un letto nel quale gli sembrava di affogare. Per di più la presenza del baldacchino, troppo basso rispetto al normale, lo soffocava e di conseguenza lo angosciava.
Quando Kosynski aveva lasciato W. , questi era intento a riflettere sulla sorte del professor Conrad; e così rimase per alcuni minuti, estraniandosi dal resto del mondo. A ridestarlo fu la padrona di casa che si rivolse al giovane con fare preoccupato. "Si sente bene ?". Al giovane parve di ascoltare la voce della propria madre, e fu tale l'impressione ricevuta che rispose:
"Sì mamm... , cioè certamente signora Matthiau"
"Mi scusi, ma il suo sguardo era così spento, e poi stamattina mi sono sorpresa nel trovare il suo letto intatto"
"Effettivamente ho passato la notte in solaio " spiegò il giovane. "Devo essermi addormentato lì senza volerlo"
"In solaio!? Oh mio Dio!" esclamò la donna portandosi entrambe le mani al petto. "Avrà avuto freddo ed avrà fatto degli incubi"
"No." intervenne il giovane infastidito, al quale l'atteggiamento della donna sembrava troppo materno. "Ho trascorso la notte in completa serenità."
La signora Matthiau vedeva in W. il figlio che non aveva mai avuto e che da sempre desiderava. Non che non avesse figli: aveva partorito tre femminucce; due di esse si erano già maritate e si erano trasferite lontano; la terza, di appena quattordici anni, viveva con lei. Tuttavia la donna desiderava ardentemente un figlio maschio. Bramosia questa che in lei era tanto più evidente in quanto pensava, erroneamente, che la causa di tutto ciò fosse da ricercare nella propria persona. Il dialogo fra i due fu interrotto proprio dalla figlia, di nome Silvia, che entrando con aria fresca e allegra chiese alla madre se, per un po', poteva rimanere in compagnia di una sua amica. W. ne approfittò per divincolarsi e si avviò verso la propria stanza. Camminando con passo lento ripensò alle ultime parole della padrona di casa: "...avrà avuto degli incubi". Sì, lui aveva avuto un incubo del quale ora non era rimasta la più pallida impronta. Questi pensieri si interruppero sulle scale dove incontrò il prete, ancora visibilmente irritato: i suoi occhi, sulla testa completamente calva, si erano ridotti a delle fessure strettissime che donavano al suo volto un'espressione di sofferenza; le sopracciglia erano inarcate; e le labbra, tirate, lasciavano intravedere i denti minuti, come se li stesse digrignando. Ciò contribuì ad accrescere la convinzione in W. che si trattasse di un esorcista. " Anche satana fuggirebbe dinanzi a quest'uomo," pensò.
Il resto della mattinata lo trascorse chiuso nella propria camera, leggendo un libro di Goethe. Interruppe la lettura solo quando fu chiamato per il pranzo, servito, come era consuetudine, in una stanza posta dipresso alla cucina. Il posto a tavola di Kosynski era naturalmente vacante ( in quell'istante il compositore si trovava già al palazzo di Mike ). W. ,pertanto, era privo del suo naturale compagno di dialogo. Per supplire a tale mancanza preferì conversare con la ragazza, che si rivelò simpatica e maliziosa, nonostante fosse ancora un' adolescente. Raramente rimaneva senza parole; inoltre quando W. pronunciava qualche frase ambigua la ragazza l'afferrava al volo, e guardava il giovane con complicità. Evidentemente gli anni trascorsi lì dal compositore avevano influito non poco sulla schiettezza mentale di Silvia. Mentre i due dialogavano con crescente animosità, il prelato e la padrona di casa si erano chiusi in un cerimonioso silenzio; i due sposini invece continuavano a parlare fra loro, sempre a voce bassa. Quando l'ultima portata fu consumata, uno alla volta, i commensali si allontanarono dalla tavola. Il primo a scomparire fu il prete; poi toccò ai due sposini; e infine si mossero Silvia e la madre. La prima doveva svolgere una non ben precisata faccenda, la seconda invece s'impegnò quasi subito nelle pulizia del caseggiato. W. invece rimase al suo posto per un po', indeciso sul da farsi: quelle che erano le sue occupazioni abituali lo avevano già impegnato al mattino; nè la sua mente in quell'istante era fonte di nuove idee sul come impiegare il tempo. Si decise ad alzarsi da tavola solo per fuggire dagli sguardi della signora Matthiau, che mentre sparecchiava la tavola gli sorrideva insistentemente. Giunto nella sua stanza si adagiò sul letto con l'intento di essere catturato da un sonno ristoratore. Tuttavia i suoi frenetici moti di pensiero non avevano alcuna voglia di essere preda del sonno, per cui, dopo circa mezz'ora di inutili tentativi, si alzò dal letto e si avvicinò alla finestra. Da lì potè osservare Silvia e le sue amiche che parlavano tra di loro. Benchè W. non fosse in grado di ascoltare, dagli atteggiamenti delle ragazze riusciva a comprendere che le danze erano condotte istante per istante da Silvia, a volte anche in modo poco democratico. In ogni caso tutte quante le amiche sembravano accettarne volentieri il tirannico dominio. Si soffermò in quella posizione per una quindicina di minuti. Solo quando incominciò ad avvertire un po' di sonnolenza si adagiò nuovamente sul letto, riuscendo questa volta a lasciarsi intrappolare dalle fitte maglie del sonno.
Si svegliò che era pomeriggio inoltrato. Dopo essersi bagnato il viso per rinfrescarsi un poco, prese con sè il libro e scese al piano sottostante, dove si accomodò su di una poltroncina in veranda, trasportata appositamente fuori dalla padrona di casa. L'eccessiva premura della donna disturbò W. : avvertiva sempre un senso di disagio nei confronti di coloro che lo servivano; era convinto di doversi sdebitare in un modo o nell'altro. Frattanto il professor Frege si trovava proprio sulla strada che conduceva al caseggiato. Aveva intenzione di invitare W. ad un ricevimento che si sarebbe tenuto una decina di giorni appresso nella sua villa. Lungo la salita i chili in più del professor influenzavano notevolmente il ritmo del suo passo; il suo viso era più paonazzo del solito, ed oramai boccheggiava vistosamente. I metri più difficoltosi si rivelarono essere proprio gli ultimi: gli parvero infiniti e massacranti. Dinanzi all'abitazione giunse senza fiato e con la fronte grondante di sudore, che cercò di asciugare con il fazzoletto. Quando fu nelle sue possibilità celare in modo decoroso la fatica, compì gli ultimi metri che lo dividevano dal caseggiato e, salendo i tre gradini della veranda, si dispose di fronte al giovane.
" I dolori del giovane Werther!" esclamò Frege " Sicuramente uno dei migliori scritti di Goethe". Il giovane alzò il capo e l'immagine che si ritrovò dinanzi fu quella del viso ancora paonazzo dell'uomo. Indi chiuse il libro e disse:" Sono d'accordo con lei professore..."" Tuttavia mi permetta di ricordarle quale magnifico capolavoro è il Faust. Opera mirabile, che mai terminerà di affascinare e soggiogare... " Si sedette poco distante dal giovane e riprese: " Lei venderebbe mai l'anima al diavolo ?". W. lo guardò con fare incuriosito: nessuno gli aveva mai rivolto una domanda del genere
"No. Penso proprio di no. Amo troppo la mia libertà per donarla a qualcun'altro"
"Lei mente " sentenziò Frege. " Tutti la venderebbero se ne capitasse l'occasione. L'uomo ha troppi desideri incoffessabili per poter resistere. Sicuramente molti tentennerebbero, o molti altri, come lei, dichiarerebbero in pubblico di non essere interessati affatto. Tuttavia quando l'uomo è solo, in compagnia di se stesso, il desiderio riaffiora, si insinua nella mente e la domina. In quel preciso istante ogni uomo venderebbe la propria anima."
"Lei sarebbe un ottimo demonio" replicò W. . Al che Frege accennò un sorriso, immediatamente bloccato da W. che riprese a parlare.
"Comunque, partendo da quanto lei ha detto, per salvare la propria anima basterebbe non rimanere mai soli... "
"No !" Intervenne Frege. " Una sana educazione alla solitudine è molto più proficua; bisognerebbe rimanere sempre un po' soli durante la giornata. La solitudine è lo specchio della propria anima, nel quale l'essere umano si ritrae con i suoi pensieri, i suoi desideri, le sue angosce; in essa l'individuo si pone in confronto con se stesso, ingaggiando una lotta virulenta. Spesso approda a giudizi encomiastici su se stesso, che in realtà poco hanno da spartire con le sue effettive doti; in altri effettua una rigorosa e puntuale demolizione della propria persona, dimenticando le cause circonstanziali che hanno condotto a quel presunto stato di cose. Entrambi gli atteggiamenti sono sbagliati e dannosi, e derivano da quella che io chiamo diseducazione alla solitudine." W. avrebbe voluto replicare, ma non sapeva come, per cui si limitò a rivolgere una domanda talmente ovvia che era inutile sottoporla al professore: " A questo punto qual è il rapporto adeguato e proficuo?"
" Più che altro l'uomo deve impadronirsi di se stesso; deve svuotare l'immenso contenitore del proprio animo. Quando finalmente null'altro è rimasto, dato che questo è un procedimento lungo e faticoso, deve semplicemente osservare. Deve accettare di sè ogni cosa; anche il lato più oscuro. Mai giudicare i propri desideri con il paradigma del senso comune, essi non hanno nulla da spartire con esso. Appartengono ad un'altra realtà regolata da leggi profondamente diverse. E' evidente che siffatti desideri non vanno esauditi se non sono nel rispetto altrui, tuttavia sono anch'essi fondamentali nel processo evolutivo..."
La conversazione tra i due proseguì su questo binario, muovendosi tra le prolisse e fastidiose sequele di sentenze, argomentazioni e inferenze del professore, e le ribattute del giovane, che per la verità non si rivelarono molto acute. Il tutto cessò per l'arrivo della signora Matthiau, la quale informò il giovane che la cena era in tavola, e al contempo invitò il professore a rimanere con loro. Questi però declinò cortesemente l'invito, e alzandosi disse: "A proposito, quasi dimenticavo la vera ragione che mi ha condotto qui: fra dieci giorni si svolgerà un ricevimento alla mia villa... Mi farebbe molto piacere se lei mi recasse in dono la sua presenza; se vuole può invitare qualche suo amico"
" Grazie per l'invito, le assicuro che non mancherò".
Si salutarono; e W. potè assistere allo spettacolo quotidiano della tavola da pranzo riccamente imbandita. Il giovane si accomodò al proprio posto e notò che il compositore non era presente neppure per la cena.
"Che fine ha fatto il signor Kosynski ?" chiese alla padrona di casa. A rispondere fu però la ragazza, che stava incominciando a servire la prima portata. "Sarà andato da quel mezzo pazzo che vive nella boscaglia... ". La madre intervenne prontamente e intimò alla figlia di smetterla con quelle frasi maleducate e inopportune. Al che Silvia si avvicinò a W. e gli confidò: " Sarà... ma quel tipo è proprio strano." E il giovane, mantenendo il tono della voce basso chiese: " Perchè dici questo ?". Quando la ragazza era in procinto di aprir bocca arrivò la madre, al che Silvia, con gesto abile e accorto, deviò il discorso e guardò W. con complicità.
Come a pranzo la conversazione fra W. e Silvia si animò ben presto, tanto più che ora tra i due regnava un atteggiamento confidenziale. Lo studente non smetteva mai di stupirsi della ragazza: sapeva alludere ad un argomento senza nominarlo direttamente in mille modi diversi e sempre ingegnosi; le sue mani, ma sarebbe più corretto dire la sua bocca, lanciavano stoccate precise e ficcanti che, immancabili, colpivano il bersaglio. Alloggiava in quella casa da quasi tre mesi e in tutto questo tempo non aveva mai osservato Silvia in quella veste; anzi sino a poco tempo prima a malapena ne ricordava il nome. Quasi senza accorgersene riapparì l'immagine del professor Conrad, il violentatore: anche questi appariva diverso. Ora ne era certo: non è possibile celare per troppo tempo il proprio animo; prima o poi esso affiora, e più lo si reprime più esso rischia di esplodere distruggendoci. Furono pensieri di tal fattura ad accompagnarlo al sonno quella sera, e con essi si risvegliò il giorno seguente.
La notte di Kosynski era volata via in un attimo. Al suo risveglio, avvenuto ad un'ora piuttosto tarda, credeva che fossero trascorsi solo pochi minuti dalla sera precedente; era convinto di essersi addormentato tutt'al più da un paio d'ore. La triste conferma che fosse oramai giorno gli giunse dai raggi solari che si infiltravano nelle ampie imposte della stanza. Rinfrescatosi alla toilette e vestitosi in fretta, scese al piano sottostante dove regnava un assoluto silenzio. Dopo alcuni minuti fece il suo ingresso Jules con un vassoio, sul quale era pronta una calda e fumante colazione per il compositore. Jules era il maggiordomo di Mike, o meglio, più che un maggiordomo era un caro e vecchio amico di questi, che lo aveva seguito in lungo e in largo nei suoi frequenti spostamenti. Aveva di già superato la sessantina ed aveva gravi problemi sia di udito che di vista. In varie occasioni lo stesso Mike aiutava il vecchio nelle sue mansioni, il quale con aria indispettita, ma sempre fine ed elegante, pregava il signor Cruiser di smettere. Aveva costruito la sua intera esistenza con il fine di servire i Cruiser nella maniera migliore; e da sempre avvertiva l'intimo dovere di essere quasi responsabile di loro. E così, nel corso degli anni, con atteggiamento da perfetto maggiordomo, era intervenuto nelle vicende private della famiglia. Non che prendesse parte alle loro discussioni, tuttavia se gli si chiedeva consiglio o un parere personale, rispondeva con garbo e intelligenza. In varie occasioni erano state le sue parole, pronunciate di sfuggita tra un pasto e l'altro, a risolvere intricate e imbarazzanti faccende. Mike da parte sua lo considerava un amico e non riusciva ad immaginare un solo giorno della propria esistenza senza quella figura così familiare e paterna. Il gravoso fardello degli anni, però, pesava sulle stanche spalle dell'uomo; non era più il fido maggiordomo e consigliere, sempre impeccabile e rigoroso; bensì un docile vecchietto che sulle malferme gambe aveva conservato un atteggiamento signorile ed elegante. Ciò nonostante l'esistenza di questo individuo, sempre ai margini, recava in sè aspetti tristi e tragici, quale ad esempio la sorte del figlio. Per questi il padre aveva immaginato un'esistenza al servizio della famiglia Cruiser, come era oramai da più generazioni. E per raggiungere il suo fine lo aveva educato con austerità, comunicandogli tutti quei valori che erano alla base della propria esistenza. Il giovane nel corso degli anni, come spesso accade, incominciò ad odiare quella vita: l'osservava come inetta e inrispettosa della dignità di un uomo: " Vivere per servire " ripeteva in cuor suo. "Che cosa vi è di più meschino!". Il ragazzo ambiva a ben altre mete; aveva dei progetti chiari nella sua mente fremente e ambiziosa. Così, dopo la morte della madre, cui era legato in modo morboso, fuggì con pochi soldi e senza molti indumenti. I suoi sogni e progetti si sgretolarono, cozzando con il mondo reale, del quale il padre, colpevolmente, non aveva mai fornito al giovane una visione completa. Impreparato ed ingenuo fu quindi trascinato dal corso degli eventi senza poter tentare alcuna tanto agognata impresa. Le ultime notizie al suo riguardo risalivano a dieci anni prima: viveva in una piccola cittadina della Provenza; le sue condizioni non erano delle migliori, tuttavia i saldi valori conferitegli dal padre lo avevano premunito da un'esistenza balorda, plasmata dai raggiri e dagli inganni. Ciò nondimeno la notizia che suo figlio fosse divenuto un povero ma onest'uomo non rallentò il declino di Jules, trasformatosi in un tenero cane sdentato e un po' cieco al quale non si può far a meno di voler bene. La sua sola presenza donava a Mike un'infinità di amore misto a malinconia; tramite Jules i ricordi della sua infanzia e della sua giovinezza rifiorivano volta per volta senza impallidire, nè il tempo riusciva a porre il suo spesso drappo su di loro. Sul vassoio, oltre ad una ricca colazione che Kosynski toccò appena, vi era un messaggio indirizzato a lui.
Salve Kosynski ! Finalmente sei sveglio ! Non credevo fossi amante del letto quando in esso ci si dorme solo; ero convinto che i compositori dormissero molto meno e lavorassero di più. Comunque ti lascio questo messaggio per giustificare la mia assenza, che spero tu abbia notato. Urgenti questioni di lavoro mi hanno obbligato a partire questa mattina, prima che potessi risvegliarti. La mia assenza si protarrà per alcuni giorni, per cui se desideri essere vittima della mia ospitalità attendi fino al prossimo venerdì.
P.S. Ieri sera avevo dimenticato di porgerti i miei sinceri complimenti per la sonata: la reputo molto originale e ben strutturata nel complesso. Melodie eteree ma estremamente intense, ricche di tragicità e passionalità al contempo. Sono orgoglioso di essere amico di un musicista del tuo livello.
Eternamente tuo,
eternamente mio,
eternamente l'uno dell'altro.
Apprezzò molto il breve messaggio, i cui saluti finali scimmiottavano una ben più celebre lettera. In Mike aveva scoperto un amico sincero, e ciò lo lusingava. D'altronde era in completa sintonia con il giudizio espresso dall'uomo riguardo alla sua partitura. Kosynski era ben consapevole di quanto componeva; lui era il primo a criticarla e ad apprezzarla senza preconcetto alcuno. Terminata la lettura del messaggio e con essa la colazione, si alzò dalla sedia e incominciò stiracchiarsi i muscoli del corpo, ancora intorpiditi per la nottata. Frattanto che il compositore si dimenava a destra e a sinistra, entrò Jules. Kosynski lo salutò e gli comunicò la sua partenza, ma il vecchio non parve afferrare con precisione le parole del primo: la sua risposta fu : " Non si preoccupi, riferirò al signor Cruiser il suo desiderio ". Kosynski non potè trattenersi ed ebbe uno sbotto di riso, ma immediatamente si prodigò di ricacciare in gola il secondo. Salutò ancora una volta Jules e, uscito, inforcò la bicicletta per partire alla volta della sua abitazione. I suoi indumenti erano stati ripuliti da Jules, per quanto possibile, per cui decise di assumere un ritmo più blando rispetto al giorno precedente. Data l'andatura Kosynski impiegò più tempo del previsto per raggiungere il caseggiato, e quando vi giunse ebbe una piacevole sorpresa: W. e la figlia della signora Matthiau conversavano sulla veranda, e il tono si sarebbe detto alquanto confidenziale. Lo stupore fu ancor più evidente nel compositore in quanto ricordava bene l'atteggiamento del giovane nei confronti della ragazza: solo in sporadiche occasioni lo aveva visto rivolgerle la parola. Lui invece aveva assistito alla sua nascita e crescita; e con molta probabilità aveva rappresentato una delle ragioni che lo avevano spinto a trasformare il caseggiato nella sua dimora definitiva. Osservare come quello che era un piccolo fagottino carino e piagnucolante si fosse trasformato giorno per giorno, quasi inavertitamente, in un essere autonomo, dotato di sensazioni, pensieri , capricci, lo aveva sconvolto e affascinato. In alcuni, impalpabili frangenti gli era parso di cogliere Dio. Ma non trascorse molto che abbandonò quest'idea : " E' solo un sentimento dell'animo" si ripeteva " e come ogni sentimento può essere fallace o veritiero ". Da anni oramai era divenuto un amico, più che un padre, e ciò rendeva il rapporto fra i due libero e sincero, aperto a qualsiasi nuovo ed inusitato aspetto. Inoltre l'animo schietto e piacevole insito nella natura della ragazza rendeva semplice e ovvio un rapporto di tal fattura.
" Avete avvertito la mia mancanza ?" chiese il compositore ai due
" Un po'... " rispose W. " forse all'inizio. Ma subito dopo Silvia l'ha colmata in modo encomiabile." La ragazza, non attendendo quel complimento, chinò il capo e arrossì leggermente. La cosa, per quel che ricordava il compositore, non era mai avvenuta, e ciò accrebbe di molto la curiosità di questi. Tuttavia la ragazza si riprese quasi subito e replicò in tono scherzoso: " Non che il buco fosse così grande... ! Bastava ben poco a colmarlo." Risero entrambi di queste parole, anche perchè furono supportate da una mimica eloquente. La ragazza però non s'interruppe e, puntando l'indice verso Kosynski, continuò: " A dire il vero c'è stata una persona che ha avvertito molto la tua assenza..."
" E chi sarebbe ?" chiese Kosynski incuriosito.
" Ma il reverendo !" esclamò stupita la ragazza, anche se la vena d'ironicità era alquanto evidente. I due risero e Silvia , portando entrambe le mani giunte al petto, pronunciò con tristezza: " E' stato tale e tanto il dolore provato, che questa mattina è partito senza preavviso"
" Partito ! " esclamarono i due stupefatti, e questa volta non risero affatto.
" Ah !" esclamò di nuovo Kosynski in aria di sfida. "E' addirittura fuggito il pover'uomo; non ha retto alla cocente sconfitta".
W. fu come sollevato dalla notizia; non gli era mai piaciuto quell'individuo: era troppo tetro per poter essere un chierico. Lui infatti aveva un'immagine dell'uomo di chiesa estremamente diversa, risalente alla sua infanzia, quando il suo legame con il mondo religioso era più stretto. La sua famiglia era fortemente religiosa: ogni domenica tutti quanti si recavano in una minuscola chiesetta di campagna dove veniva celebrata la santa messa. Suo padre infatti riteneva che questa fosse molto meno mondana di quelle cittadine, dove la gente vi andava essenzialmente per civettare ed esibirsi, e non per ricevere il messaggio divino. Lì invece, in una fredda e spoglia chiesetta, vi si incontrava solo gente sinceramente cristiana. In quelle mattine domenicali la madre di W. si alzava di buon'ora: preparava un'abbondante colazione per tutti; provvedeva a che gli indumenti fossero ben stirati e freschi di bucato, poi li disponeva su di un ampio divano, dove ognuno si dirigeva in modo meccanico al risveglio per prenderli ed indossarli nella propria stanza. Il tutto si svolgeva con flemma e con ritmo sempre uguale a se stesso, conferendo ai gesti un'evidente ritualità. Della chiesetta W. rammentava con tenerezza un frate il cui nome oramai gli sfuggiva. Era basso, tozzo, con un naso enorme ed arrossato che attirava la sua attenzione insieme all'enorme ventre che spostava con notevole sforzo. Quando era seduto si riversava completamente sulle sue corte gambe, e se in quella posizione gli sfuggiva un libro di preghiere, dapprima lo guardava meditabondo, e subito dopo, certo di non poter mai raccoglierlo, faceva finta di niente e fingeva di ricordarle a memoria. Ciò nondimeno era un vero e sincero credente. I suoi messaggi omelici erano ricolmi di amore e fiducia; non lanciava mai delle accuse, nè tantomeno invettiva contro i costumi del tempo, ma al contrario terminava le sue omelie ricordando quello che per lui era il fondamentale comandamento: " Ama il prossimo tuo come te stesso". Non era però l'unica figura ecclesiastica dell'infanzia di W. Vi era infatti anche il suo catechista: alto, snello, l'esatto contrario del frate. Di lui non aveva ricordi chiari, se non per il fatto che fu condannato per atti di libidine di fronte ad alcune allieve. La vicenda all'epoca suscitò molto scalpore. Molte famiglie non permisero più ai figli di seguire il catechismo; lo stesso W. fu tenuto lontano da queste per un po' di tempo. Solo l'intervento del frate riuscì con il suo buon animo a riavvicinare la persone al mondo sacro.