Fine della storia.
Giulio Ameglio
Finalmente era arrivato al mare.
Ora poteva camminare sulla spiaggia, lentamente, senza che nessuno gli
dicesse dove andare. Poteva sentire la sabbia morbida che gli accoglieva
i piedi, poteva assorbire il profumo dell’aria, poteva socchiudere le palpebre
fissando la linea dell’orizzonte invasa dai riflessi del sole. Si sedette
sulla sabbia. Da quando se ne era andato da casa erano ormai passate due
settimane. Aveva camminato a lungo, all’inizio senza una meta precisa.
L’unico istinto che lo guidava lo convinceva a diradare il più possibile
gli incontri con la gente. Poi, d’un tratto, era comparsa l’idea di dirigersi
verso il mare. Era fermo all’imbocco di una stradina sterrata di campagna,
di fronte ad una cascina che nel secolo scorso doveva essere stata grassa
e ricca. Si era appoggiato al tronco di un salice, le cui foglie stavano
per aprirsi. Per la prima volta da quando se ne era andato si sentiva svuotato.
Chiuse gli occhi, aspirò profondamente l’aria ricacciandola via
in fretta, quasi con insofferenza. Riaprendo gli occhi scorse la primavera
in quelle foglie appena accennate, e la primavera gli portò un profumo
di mare e di libri letti. I libri in cui i personaggi che se ne andavano
partivano per i Mari del Sud, oppure per viaggi di esplorazione destinati
invariabilmente al fallimento. Poteva essere una buona meta. Non aspirò
certo ai Mari del Sud, si sentiva già abbastanza personaggio “maledetto”
così, in giro a vagabondare dopo aver abbandonato la propria famiglia,
ma almeno al mare della Liguria poteva arrivare, in fondo era pur sempre
verso sud. Fu così che riprese il cammino, con una direzione precisa,
questa volta. Ora, accovacciato sulla spiaggia, si sentiva bene. Si tolse
scarpe e calze, e con i piedi frugò nella sabbia tiepida. I minuscoli
granuli gli massaggiavano la pelle e le vesciche, liberandoli dalle migliaia
di passi che li avevano condotti fin lì. Con le mani se li palpò,
completando la beatitudine donata dalla sabbia. Aveva cominciato ad essere
preoccupato per i suoi piedi dopo tre o quattro giorni di cammino. Erano
comparse le prime vesciche, alla sera le piante dolevano come se qualcosa
le stirasse, e i talloni avevano iniziato un processo di ottusa insensibilità.
Si era fermato all’ingresso di un paese che sorgeva sulle pendici di una
collina. Aveva ancora un paio di panini da mangiare, e per la cena sarebbero
bastati. Non aveva voglia di sostenere gli sguardi curiosi della gente,
quella sera. Poteva benissimo dormire sotto qualche albero, l’aria era
tiepida. Da quando era andato via, era il primo momento di reale cattivo
umore. I piedi che dolevano avevano cominciato a farlo dubitare dell’insensatezza
di tutta la faccenda. Che ci faceva lì, alla sua età, da
solo, senza alcuna voglia di vedere una faccia che lo scrutasse con quel
misto di disagio e cattiveria che aveva imparato da subito a sostenere?
Se n’era andato perché voleva camminare, solo camminare. Non aveva
altri scopi. Aveva sperato che il camminare lo liberasse da tutto quello
che si era aggrovigliato nella sua anima in quegli ultimi mesi e anni.
Non aveva mai pensato di attraversare Germania e Francia d’inverno per
salvare una vita umana, né di mettere alla prova il proprio coraggio,
e neanche di recuperare una patetica e romantica vita nei boschi. Anzi,
tutto questo gli dava perfino un po’ di fastidio. Lui non chiedeva altro
che di camminare, gli sarebbe bastato il gesto per liberarsi. Ed ora i
piedi lo tradivano. Era così assolutamente banale che non poté
fare a meno di ridacchiare senza muovere le labbra. Non poteva fermare
il proprio cammino dopo pochi giorni perché aveva le vesciche, cosa
avrebbero detto a casa, vedendolo tornare in quel modo. Avrebbero riso
di lui, un’altra volta, e quello sarebbe stato l’ennesimo castello disegnato
nel vuoto. Ma probabilmente questa volta sarebbe stato peggio. Non si era
mai spinto così in là, e questo avrebbe autorizzato commenti
feroci sulla prolificità delle sue illusioni. Chissà per
quanto tempo gliel’avrebbero fatto pagare, con gli sguardi ammiccanti al
mattino, durante la colazione, o con le pacche sulle spalle lasciate cadere
con noncuranza al termine di qualche discussione sull’impossibilità
di comunicare, di cambiare, di sperare. E magari, a letto, prima di dormire,
qualcuno gli avrebbe anche detto: “E già, è proprio vero,
non capisco come tu non te ne renda conto, ma dalla morte di tuo padre
hai iniziato a rinchiuderti sempre di più su te stesso e sui tuoi
sogni strampalati...”. Non era possibile, pensò, mentre si scartava
il panino. Non poteva tornare. I piedi non potevano non capire le sue esigenze,
non potevano rifiutarsi di accogliere l’ineluttabilità delle scelte
che ad un certo punto occorre compiere. Era necessario. Ora finalmente
stava bene. Si tolse giacca e camicia e si distese. La pelle della schiena
accolse il contatto con la sabbia con un leggero brivido, in cui si mescolavano
piacere e disagio. Ondulando le spalle si scavò meglio una impronta
a cui cercò di aderire con ogni centimetro di pelle. Allargò
le braccia e le dita delle mani cominciarono ad accarezzare la sabbia frugando
tra i granuli alla ricerca di un piacere segreto. Si stirò, e premette
ancor di più la schiena nuda contro la sabbia, assaporando il piacere
dei muscoli protesi al ruvido contatto con la sabbia umida. Con una mano
impregnata di sabbia si accarezzò il torace. Era riuscito anche
a far l’amore una volta, in quelle due settimane di cammino. Quando gli
era accaduto, aveva proprio pensato di essersi trasformato in un personaggio
di un libro. Si era perfino stupito che bastasse così poco. Era
sufficiente cominciare a muoversi come un eroe di carta, prendere una decisione
improvvisa, dar vita ad uno pseudo racconto - gli ingredienti c’erano tutti
per un dramma da poco prezzo - e tutto sarebbe accaduto da solo. Così
aveva pensato alzandosi dal letto in cui la ragazza dormiva ancora. Quello
era per completare il cliché: andarsene senza salutare, sparire
in silenzio, lasciando solo il proprio odore sul cuscino. Solo che lei
non aveva forse mai letto libri del genere, ed era ben sensibile ai rumori,
per cui si svegliò e vedendolo armeggiare un po’ goffamente per
infilarsi i pantaloni, gli chiese che volesse fare. Era presto, c’era ancora
tempo per starsene a letto e lei aveva ancora voglia di far l’amore. Non
era particolarmente bella, ma aveva una voce molto calda e scura. Facendo
l’amore, durante la notte, lui le aveva chiesto di parlare, non importa
che dicesse, ma voleva sentire quella voce che accarezzava più delle
sue mani, e accompagnava i movimenti del corpo dondolandosi con loro. Aveva
fatto l’amore con una voce. E fu la sua voce a convincerlo al mattino a
spogliarsi di nuovo, a rituffarsi nel letto e a cercarsi con le dita la
pelle ed il piacere. Si rialzò e percorse i pochi passi che lo separavano
dall’acqua. Le onde che arrivavano lente giocherellarono intorno alle caviglie.
Stava proprio bene, ora, ce l’aveva fatta. Lentamente, e saltellando un
po’ incerto prima su un piede e poi sull’altro, si sfilò pantaloni
e mutande, che lanciò all’asciutto sulla spiaggia. Ora poteva sentire
la brezza su tutto il corpo e la pelle poteva respirare di piacere. Ora,
finalmente, un sogno l’aveva realizzato. Mentre con le mani raccoglieva
un po’ d’acqua per spalmarsela sul viso, la memoria, per uno dei suoi imprevedibili
scherzi, lo riportò al primo incontro che aveva fatto dopo aver
abbandonato la casa in cui aveva vissuto per più di vent’anni: il
cadavere di un cane macellato da un’auto di passaggio. Camminava forse
da una decina di minuti, la sua mente era ancora vuota e paralizzata dalla
scelta che aveva compiuto, il suo sguardo era fisso in avanti, senza riuscire
ancora a posarsi su nulla. Poi, quella macchia scura gettata in un angolo
della strada l’aveva arpionato. Conosceva quel cane. Era un vagabondo timido
e un po’ scontroso che aveva fatto del territorio compreso tra le cascine
della zona il suo campo di esplorazione. Spuntava ogni tanto vicino alle
case, se annusava la buona disposizione delle persone si avvicinava un
po’ - mai troppo - e iniziava a raspare il terreno con una zampa, sollevando
e protendendo il muso. Dopo un paio di tentativi, se non arrivava nessun
boccone, se ne andava: non aveva l’indole del servitore e del mendicante.
Se aveva scelto di fare il vagabondo, la gente gli doveva qualcosa. Se
le persone ottuse non lo capivano, meglio andarsene. Ed ora se lo trovava
lì, un mucchietto di ossa e pelle squarciata, da cui un grumo di
intestini colava sull’asfalto. Anche in quel momento il capo era proteso,
con tanta forza che pareva volesse staccarsi dal corpo. Si fermò
in piedi vicino a lui, osando toccarlo solo con la punta del piede. Alcune
mosche azzurrine si sollevarono dallo squarcio rossastro, disturbate nel
loro allegro banchetto. Fu tentato di seppellirlo, ma non aveva nulla per
poterlo fare. Riprese il cammino senza voltarsi. Ora il cammino era terminato.
Lentamente avanzò ancora nell’acqua, godendo dei brividi che il
contatto freddo ed umido gli generava. Quando il cielo scomparve sopra
di lui, sentì che poteva finalmente svanire. ".
WorkNet Service 1998
- Rubrica curata da Icaro