SUD.

Manlio Ranieri



    PROLOGO

 

La luce del sole ha pennellato gradatamente i colori della mia terra sul paesaggio scuro che aveva custodito il nostro segreto, durante la notte.

 C’è un manto verde che scende dolcemente verso valle, pro-prio sotto di me, rotola sul pendio poco aspro di questa colli-netta e raggiunge i campi dei contadini così regolari e squa-drati, ma non per questo prigionieri di qualche geometria pre-meditata. Al di là delle coltivazioni, la stradina che collega noi al mondo si tuffa senza troppa voglia nella statale ancora poco trafficata, e oltre si intravede abbastanza nitida la linea azzurra del mare.

 Mi arriva il ritmo regolare del respiro di Juliet, attraverso le persiane della finestra della camera da letto ; l’ho lasciata quando si era appena addormentata, con le mani strette sulla pancia, come a voler proteggere il suo nuovo piccolo inquilino, forse ancora troppo poco umano per potersi accorgere del calo-re che lei gli riserva, come una chioccia intenta a covare. Sul letto riposano sparsi i fogli della prima stampa di questo mio lavoro, anch’esso ancora allo stato embrionale ; tuttavia il solo essere riuscito a impilare quella voluminosa catasta di carta in-chiostrata senza dovermi costringere a cestinarne buona parte, mi dà quasi la stessa sensazione di sicurezza del sapere che nel ventre di Juliet si stia dando da fare per ritrovarsi uomo un minuscolo esserino, il quale deve la sua esistenza a una nostra lotta contro tutti i pareri negativi di decine di teste illustri che ci avevano privato anche solo della speranza.

 Il posacenere è vuoto, pulito, le uniche tracce di sigaretta so-no costituite da un fondo grigiastro, ormai incrostato dagli anni che ci separano dall’ultima estate che abbiamo trascorso qui.

 E’ come se avessi consegnato altre due piccole parti di me alla vita, le avessi messe in salvo da una distruzione che mi sembrava quanto mai vicina, oltre che inevitabile. Il mondo, visto da qui, sembra addirittura bello.

 1

 Driiin...

 Driiin...

 Driiin...

 Driiin...

 “Risponde la segreteria telefonica dell’abbonato 54023155. L’utente da lei chiamato è momentaneamente assente. Se desi-derate essere richiamati lasciate un messaggio dopo il segnale acustico...

 ...Beep...”

 “Cazzo, sì che voglio essere richiamato, Manuel ! Sono più di tre settimane che ci prendi per il culo con questa storia di anco-ra qualche giorno !

 Non è che vogliamo passare per i rompicoglioni di turno, ma almeno facci sapere qualcosa.”

 Un’altra giornata di merda.

 Non ci può essere sveglia peggiore della voce fredda e ine-spressiva della segreteria telefonica che risponde ai quattro squilli a vuoto, e del messaggio dell’editore che ti infila una certa fretta nel culo per un romanzo che è ancora tutto nella tua testa e non riesce a venirne fuori, come fosse prigioniero di qualche forza misteriosa. Ho barato pietosamente nel dargli scadenze, e adesso loro si aspettano qualcosa a giorni, mentre io ho bisogno forse di me-si. Ma è sempre stato nel mio stile il rimandare le incombenze all’indomani e curarmi solo di vivere alla giornata. Me lo ha sempre rimproverato anche Juliet.

 Mi mossi svogliatamente nel letto, strofinai le mani sul viso e cercai di convincermi a puntare i piedi per terra. Mentre lo fa-cevo urtai la bottiglia di liquore rimasta lì dalla sera preceden-te, e la rovesciai per terra ; un po’ del liquido residuo si versò sul pavimento sporco, e avvertii il suo aroma dolciastro di li-mone e alcol espandersi nell’aria e farsi sempre più intenso, fi-no quasi a nausearmi. Avvertii una fitta alla testa, generata forse proprio dalla repulsione del mio fisico nei confronti di quell’odore, e caddi nuovamente disteso sul letto. Era comun-que difficile rimanerci, perché da quando avevo ripreso co-scienza ero stato tormentato con insistenza quasi fastidiosa da una sensazione estremamente spiacevole, uno schifoso misto di nausea, mal di testa e debolezza, che rendevano spiacevole an-che il poltrire a lungo inattivo.

 Quando mi decisi a vincere la pigrizia e a mettermi in piedi e alzare la tapparella, la città era già invasa da quell’aria grigia e puzzolente che le si appiccicava addosso in ogni giorno del lungo inverno, che a Milano durava dal mese di ottobre fino a quello di aprile. Eravamo ancora all’inizio di marzo, e sperare di potersi svegliare e trovare una giornata luminosa ad acco-glierti era comunque solo per gli ottimisti più caparbi. Mi avviai svogliato verso la cucina, e mi versai del latte fred-do nel bicchiere ancora sporco di liquore che avevo usato la se-ra precedente. Avvertii immediatamente l’odore aspro e zuc-cherato del limoncello, e tornarono ad assalirmi quelle sensa-zioni spiacevoli che mi avevano dato tregua per un attimo. La-sciai il bicchiere ancora pieno sul tavolo, mentre mi preparavo la caffettiera da due tazze caricandola con una montagnetta di polvere scura che trasbordava e si sgretolava in piccole frane al di fuori dello spazio a lei consentito.

 Mi accesi una sigaretta.

 Lo sguardo mi si posò sul messaggio in lingua inglese, sul pacchetto, che avvertiva le donne incinte dei gravi danni che il fumo può recare alla gravidanza. Io non ero una donna incinta, ma mi sentii assalire ugualmente da una sorta di disperazione cieca, una rassegnazione che non mi lasciava via di scampo. Per reazione, una reazione solo istantanea e fine a sé stessa, spensi la sigaretta appena bruciacchiata alla punta, e la osser-vai per qualche secondo. A tratti mi sembrò di pentirmi del mio gesto, mi assalì il pensiero che questo non sarebbe servito a risolvere il mio problema, e che quindi quella decisione non mi avrebbe mai portato a nulla, ma non ripresi in mano il mozzicone. Mi avviai verso la camera da letto, e presi dal cas-setto della scrivania una busta piena di un mucchio anonimo di piccoli pezzi di foglie secche. Quella busta avrebbe dovuto rappresentare la mia ultima, forse inutile speranza, avrebbe dovuto riuscire lì dove i medici avevano fallito. Quando uno è disperato, è portato anche a credere che la saggezza della non-na valga molto di più della scienza del medico che si è arreso.

 2

 

Il bianco.

 Era come avere davanti il buio, un buio chiaro, quasi lumi-noso o accecante, ma ugualmente disorientante. Una sensazione incredibilmente fastidiosa, deprimente ; fis-savo lo schermo del computer, e non c’era niente, a parte un piccolo cursore lampeggiante e la barra degli strumenti, in alto. Avrebbe dovuto stare a me infilarci delle parole, riempirlo di segni e di frasi, ma le idee mi si rincorrevano nella mente in maniera confusa e sconclusionata, e non riuscivano a trovare una via d’uscita. Il bianco dello schermo arrivò quasi a diven-tare fastidioso, tanto che provai anche a cambiare il colore dello sfondo ; selezionai un rosso accecante, e mi ritrovai ancora a fissare il cursore che lampeggiava sulla nuova tinta della pagi-na, ma neanche questo riuscì a fornirmi un incipit, ad abbattere quel muro che impediva alle parole di liberarsi in una forma soddisfacente.

 Sentii un mal di testa svilupparsi lentamente, fino a diventa-re lacerante, e impedirmi di restare lì fermo.

 La sensazione che provavo, nello sforzarmi per buttare giù qualche parola invano, era quella di soffocare, come se mi tro-vassi sott’acqua e non riuscissi a respirare, e intanto avessi gli occhi fissi sulla superficie argentata. Mi sembrava di vederla, questa superficie, di distinguere la macchia luminosa del sole che la perforava, ma non potevo salire, sbucare all’aria aperta e riuscire a prendere fiato.

 Poi suonò di nuovo il telefono.

 Ero stanco, con la testa dolorante appoggiata sulle braccia in-crociate sul tavolo, e lasciai che gli squilli continuassero, e che la voce monotona della segreteria recitasse la solita frase.

 “Manuel ? Sono io. Lo so che sei lì, a disperarti davanti a quel romanzo.”

 Juliet stava ancora dicendo “ho bisogno di parlarti, rispondi, cazzo !” quando mi fiondai verso la cornetta e la sollevai, come pervaso da una forma di speranza nuova e da una voglia in-spiegabilmente forte di parlare con lei. “Sono qui, Juliet !”

 “Ah, finalmente.” Il tono era un po’ freddo, e questo mi la-sciò deluso, mi fece crollare parte dell’entusiasmo con cui ave-vo risposto. “Che c’è ?”

 “Come stai, Manuel ?” Si era fatta un po’ più partecipe, più dolce.

 “Non bene.”

 “Eri ancora su quel romanzo, vero ?”

 “Mmhh...”

 “Manuel, io penso che dovresti fare qualcosa, uscire da que-sta situazione. Lo dico per te ; indipendentemente da noi due...”

 Indipendentemente da noi due...

 Il che implicava che ci fosse qualcosa da fare anche fra noi due.

 Non dissi niente ; rimasi a respirare attaccato alla cornetta.

 “Manuel ?”

 “Mmhh... ?”

 “Ci possiamo vedere, stasera ?

 Ho bisogno di parlarti...”

 “...”

 “Mi passi a prendere all’uscita dal lavoro ?”

 “...d’accordo...”

 “D’accordo ?”

 “D’accordo.”

 Avevo paura.

 Ci sono cose delle quali non ci si rende conto, a volte.

 Sapevo che la nostra storia stesse finendo, che la stavamo trascinando in maniera stanca ed inutile, ma non me ne ero mai curato troppo ; avevo sempre pensato che dovesse essere così.

 In quel momento, mentre stavo avvertendo intensamente il timore - forse una misteriosa sicurezza - che quella sera avremmo chiuso, mi sembrò per la prima volta che si trattasse di un ultimo colpo letale, che non sapevo come l’avrei retto ; soprattutto mi rendevo conto che amavo ancora Juliet, e che quel periodo nero era dettato solo da qualcosa che stava mar-cendo dentro di noi, e non precisamente nel nostro rapporto.

 La vidi uscire, e mi sembrò più bella del solito ; l’aria stanca e preoccupata sembrava renderla più affascinante di come l’avevo sempre vista nell’ultimo periodo.

 Improvvisamente mi resi conto che era tempo che non mi la-sciavo incantare dalla sua bellezza, che l’avevo data come una cosa scontata, assodata, e non mi ci facevo più trasportare.

 La abbracciai, e la strinsi a me, mentre mi accorgevo doloro-samente che lei si limitava ad appoggiare le sue mani dietro la mia schiena, senza serrare la presa.

 Capii.

 Mi parlò dolcemente, tentando di essere gentile e compren-siva, ma la sua ultima frase non lasciò dubbi.

 “Manuel, lo sai che, insomma,... tu sei l’uomo della mia vita, io ne sono cosciente...

 Lo sai che ti amo, e che sei l’unica persona che io sia capace di amare...

 Ma non ha senso andare avanti così, trascinandoci in questa storia triste ed inutile...

 Io voglio tentare di vivere, e tu mi stai uccidendo.

 E non serve neanche a te. Non ti serve a niente.

 Sei lì su quel tuo romanzo da mesi, e non ne cavi niente.

 Io vorrei aiutarti, ma non ci riesco più.”

 Non ebbe neanche bisogno di concludere il discorso, di dire è meglio che non ci sentiamo per un po’, che tentiamo di mettere ordine nelle nostre vite.

 Lo disse con lo sguardo : uno sguardo realmente triste e co-sternato, lucido per le lacrime che stava trattenendo a stento.

 “E’ che io vorrei...

 Lo sai cosa vorrei...”

 “...”

 “Una...

 Una famiglia...

 E tu non sei in grado di darmela...

 E non si tratta solo del fatto fisico, lo sai...

 Non ci provi, neanche...

 Non dico a fare il padre... o il marito...

 Neanche il mio uomo !

 E’ che mi sento di merda, perché è con te che la vorrei ave-re...

 Ma...”

 Liberò i singhiozzi in un pianto sommesso ma deciso, e mi abbracciò.

 “Non ti dimenticherò, Manuel, perché...

 Cazzo, lo sai il perché...

 Lo sai che ti amo...

 Se solo sapessi dove abbiamo sbagliato !...”

 Non riuscii a ribattere una sola parola per tutta la serata, a chiederle di riprovare, di darmi un’altra possibilità. Sapevo che non sarebbe servito, che il problema era in noi - probabilmente soprattutto in me - e non fra noi. Mi limitai ad accompagnarla a casa, a vederla scomparire l’ultima volta nel portone e poi a fiondarmi con l’auto a veloci-tà da ossesso per le vie poco trafficate della città, senza rispet-tare semafori o segnali di stop.

 3

 

Infilai nel borsone qualche ricambio, il portatile, una risma di fogli e la mia inseparabile matita, il walkman, i Nirvana, i Sex Pistols, i Damned e la cassetta di Juliet, quella che iniziava con “Romeo and Juliet” dei Dire Straits - mi ero sempre chiesto come facesse, un punk come me, a lasciarsi commuovere tanto da una canzone come quella -. Stavo per infilare anche la stecca di sigarette, ma all’ultimo la lanciai sul letto, e le riservai uno sguardo di sfida, quasi carico d’odio.

 Cambiai il messaggio nella segreteria, dissi al microfono “Sono al Sud. Affanculo tutti !” Lo riascoltai, e notai con piace-re che mi era uscito determinato, vivo.

 Scesi in strada, e l’aria era maledettamente fredda, mi avvol-se in un abbraccio che mi fece rabbrividire. Mi infilai nell’auto, e incominciai a guidare.

 Non mi fermai per tutta la notte, e quando ormai il primo sole del giorno successivo faceva capolino dalla linea azzurra del mare, arrivai nella mia piccola casa su una collina nelle campagne intorno ad Ostuni.

 Mi lasciai invadere dalla visione di quel mondo rurale che si svegliava sotto la patina umida della rugiada, dell’erbetta ver-de che scendeva fino a valle coprendo il pendio altrimenti brullo della collina, del sole che si accendeva via via di una luminosità sempre più chiara e accecante e calda.

 Poi mi misi alla ricerca delle erbe che mi servivano per la ti-sana che mi aveva consigliato la nonna, che anche il nonno - buonanima - l’aveva usata a suo tempo e che gli era servita tanto e che senò io lì neanche ci sarei stato. La nonna mi aveva anche insegnato a riconoscerle, quelle preziose piante, ma a Milano ero comunque sempre stato costretto a comprarle in erboristeria.

 Non sapevo perché lo stavo facendo : Juliet mi aveva lascia-to, solo qualche ora prima, e io mi preparavo a un lungo eremi-taggio ; eppure mi sembrava che quello fosse un modo di lotta-re, di fare comunque qualcosa per non lasciarmi andare.

 Alla fine, sovrastato dalla stanchezza fisica ma ancora pieno di energie mentali, riesumai la vecchia caffettiera e mi preparai un caffè denso e scuro, quindi mi sedetti davanti allo schermo a cristalli liquidi del computer, infilai il dischetto contenente i miseri 45 kbite di parole che avevo riletto e corretto e riscritto migliaia di volte negli ultimi mesi senza riuscire ad esserne soddisfatto e iniziai a picchiare sui tasti a ritmo indiavolato, con ancora negli occhi l’immagine incredibilmente distensiva del paesaggio che mi circondava.

 

In tre giorni avevo scritto più di quaranta pagine, le avevo rilette e corrette, ma non avevo sentito il bisogno di ritoccarle troppo, di aggiustarle e rivederle fino alla nausea perché ci tro-vavo sempre qualcosa di stonato. Non fumavo da quando ero arrivato al sud, e avevo ripreso anche a fare esercizi ginnici e a mangiare con una certa regola-rità, anche se solo quando e quanto ne sentivo il bisogno.

 Alternavo ore seduto alla tastiera del computer a lunghe passeggiate, percorsi interminabili attraverso paesaggi appa-rentemente tutti uguali, ma ognuno pieno di qualcosa di nuo-vo, di una diversa sfumatura di verde o di qualche colore in-credibilmente vivo pennellato qua e là da alcune specie di fiori selvatici. Avevo camminato a lungo anche sulla spiaggia non lontana, godendo del colore cristallino del mare primaverile, e mi sembrava di aver compiuto un balzo anche nel tempo, oltre che nello spazio, durante il viaggio attraverso l’Italia, perché a Milano l’aria era ancora grigia e fredda, mentre in quei posti i colori erano già estremamente accesi e caldi.

 

Ero appena tornato da uno di questi pellegrinaggi nel mon-do, e il sole era già tramontato da qualche decina di minuti ; avevo avuto tutto il tempo di ammirare i colori del cielo muta-re dall’azzurro al viola passando attraverso tutte le sfumature di arancio e rosso immaginabili, e mi ero seduto sulla sedia a sdraio, nel patio della casa.

 Vidi la stradina che si arrampicava lungo la collina illumi-narsi improvvisamente, ascoltai il rumore di ruote che calpe-stavano il fondo sterrato della mulattiera che portava fino a me, e immediatamente fui assalito dalla certezza di ciò che sta-va per accadere : una macchina mi si fermò esattamente di fronte, spense i fari, e ne uscì Juliet, visibilmente stanca ed emozionata, con i ciuffi di capelli scuri e ricci che le scendevano disordinatamente dalla fronte. Non ricordo di averla mai vista così bella.

 Ci corremmo incontro, come in una di quelle patetiche scene dei film melodrammatici, e ci abbracciammo. Quella volta fui cosciente del fatto che anche lei stringesse la presa dietro la mia schiena, che anche lei cercasse sicurezza in quel gesto.

 Poi disse : “è che ho sentito che ci credevi, dal tono della vo-ce. E’ stata la prima volta che non ho odiato quella maledetta segreteria telefonica.

 Lo sapevo che ce l’avresti fatta ; solo non riuscivo a immagi-nare quando e come.

 Temevo che sarebbe successo troppo tardi...

 ...Per noi due, intendo...”

 ".


 Rubrica curata da Icaro 
 
 
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